Riflessioni etnologiche

 

Carnevale si chiamava Vincenzo di Rinaldi Fabio

 

 

Nei primi anni ’70 dall’ incontro di due autori, l’ antropologa culturale Annabbella Rossi e il musicista Roberto De Simone, profondo conoscitore della tradizione musicale napoletana, nasce un memorabile affresco sulle cerimonie popolari, in particolare sul Carnevale, nell’ area campana.

I due studiosi osservano e documentano queste cerimonie, restituendoci tutto il loro carattere pittoresco. Ma l’intento, servendosi della letteratura etnologica, storico-religiosa e psicanalitica, è anche quello di individuare una serie di segni ai quali si uniscano significati simbolici.

All’ inizio mettono in evidenza il legame tra i rituali del ciclo invernale e gli antichi culti di morte e resurrezione. Anche se la funzione primitiva di propiziazione agricola ha perso importanza, i messaggi simbolici riguradanti questa funzione sono ancora individuabili.

Questo ciclo inizia pressappoco nel mese di settembre, con il primo periodo della semina, ed è cantraddistinto da numerose feste di madonne nere, e dalla festa dei morti. <<Tali feste vengono però a ricollegarsi con il mondo antico e richiamano il senso di malinconia e di morte espresso dalle donne greche che recitavano la mitica lamentazione di Demetra per la figlia>>1.

Nella Grecia antica si teneva in questo periodo dell’ anno una triste e seria festa per il motivo che in autunno la divinità del grano, Persefone o “la fanciulla” così come era chiamata scendeva nelle viscere della terra assieme al grano seminato; e Demetra piangeva l’assenza di sua figlia.

<<Ma all’ inizio dell’ inverno si hanno anche le feste dei santi o di esseri particolarmente benevoli come San Nicola, Santa Lucia, Gesù Bambino, e la Befana>>2. Pure in questo caso il vincolo con l’antichità è evidente. Il 25 dicembre la durata del giorno rispetto alla notte ricomincia a crescere e le popolazioni antiche vedevano tale evento astronomico come un rinnovamento della speranza, una possibilità di sopravvivenza, pertanto lo mitizzarono come nascita del Dio-Sole che nel mondo ellenistico e romano prende il nome di Mithra.

Per Rossi e De Simone <<è come se si volesse allontanare qualsiasi dubbiosullanatura benefica degli esseri provenienti dall’ oltretomba e di quanti stanno sottoterra e quindi sull’ abbondanza del futuro raccolto>>3.

Ma anche nella Quaresima che segna la fine dell’ inverno e l’ inzio della primavera questi due studiosi trovano delle similitudini con i pianti per Persefone. Fanno presente, rifacendosi a Frazer, che l’apologista cristiano del IV secolo Firmico Materno in “De errore profanarum religionum” parla di un rituale consistente nel trasporto dalla campagna nelle città greche dell’ effige di Proserpina, scolpita in legno, per quaranta giorni; durante i quali le donne piangevano e alla fine l’ immagine veniva bruciata.

L’ antropologa Rossi ci racconta che si susseguono in questa fase dell’ anno in Campania, feste in onore della Madonna, feste che sarebbero da accostare, secondo i miti, al ritorno di Proserpina dall’ inferno e al suo ricongiungersi alla madre Kore. Tali divinità romane corrispondono a quelle greche, Demetra e Persefone.

In molti luoghi della regione, come a Somma Vesuviana in provincia di Napoli, la sera in cui viene festeggiata la Madonna, il terreno arde di fuochi in suo onore.

In sostanza si arriva a quello che è uno dei temi centrali dell’ opera. La comparazione tra i dati teorici provenienti dal mondo antico e quelli osservati negli attuali fenomeni tradizionali è stata fatta per sottolineare l’arcaicità del segno e del simbolo e ha messo in evidenza come le classi subalterne hanno mantenuto i propri segni e simboli per difendersi dalle varie culture che si sono susseguite nel corso della storia; ciò è valido, almeno in parte, anche per oggi in un contesto di cultura di massa.

Ancora più sinteticamente si può dire che nelle feste campane sono rinvenibili rituali sincretici cristiano-pagani; si veda quindi come la presenza di elementi magico-simbolici arcaici accomuni feste religiose a quelle civili precristiane. Tutto questo è vero soprattutto per gli strati sociali più svantaggiati.

Il fatto che questo libro sia stato creato sulla base di ricerche fatte nei lontani anni ’70 ed in gran parte, in un cotesto sociale arretrato come quello delle province della Campania, non può secondo me andare ad intaccare queste considerazioni.

 

Adesso invece introduco delle cose che nell’ opera in questione non sono esplicitate ma che si possono comunque intuire. Il significato di questi rituali va aldilà di una propiziazione di fertilità agrigola; essi riaffermano una volontà di presenza in senso antropologico, intesa come la capacità di conservare nella coscienza le memorie e le esperienze necessarie per rispondere in modo adeguato ad una determinata situazione storica, partecipandovi attivamente e a livello di comunità, attraverso l’iniziativa personale. Per rifarsi ad Heidegger la presenza significa “l’esserci” come persone dotate di senso, in un contesto dotato di senso.

Il rituale tradizionale con i suoi rassicuranti modelli da seguire aiuta l’uomo a sopportare “la crisi di presenza” che egli avverte non solo nei confronti della natura, ma anche nei confronti dei cambiamenti storici, sociali e culturali. I rituali sincretici di cui parlavo poc’ anzi non sono che la testimonianza di come una comunità abbia mantenuto la propria memoria e i propri valori, nonostante il succedersi nel corso dei secoli della diffusione e dell’imposizione della religione e della ideologia cristiana e cattolica, e delle dominazioni straniere.

I due autori qui esaminati parlano di una comunità che ha anche visto lo sviluppo del capitalismo e di uno stato nazionale centralizzato e burocratizzato, che ha assistito al trionfo del modo di pensare e di vivere borghese e al processo di urbanizzazione e infine di terziarizzazione.

Questa comunità ha assimilato i nuovi valori e le nuove credenze portate a mano a mano dai molti cambiamenti storici e sociali, integrandoli nella propria cultura. Ma ha anche voluto resistere alle prepotenze di poteri ad ideologia totalizzante come quello ecclesiastico, oppure come quello dello Stato con le sue elité di governo, e come quello della omologante cultura di massa.

In queto testo c’ è un esempio di questa resistenza, <<a Sala in privincia di Avellino i due autori hanno osservato come durante il periodo carnevalesco la Chiesa, nella sua espressione locale, ancora su posizioni controriformiste(!), stava mettendo in atto una funzione destinata di solito, alla Settimana Santa. Ciò ha condotto al manifestarsi di una carica eversiva in seno a quel carnevale; questa aggressioneal potere ecclesiastico si è risolta in una satira beffarda, mediante travestimenti di tipo clericale, e per mezzo di scherzi, non proprio bonari, ai danni del parroco e dei fedeli>>4. La satira verso il potere, pure verso quello laico, è un elemento presente in molti carnevali campani e Rossi e De Simone la ritrovano spesso nelle cermonie da loro osservate e documentate. E’ quasi ovvio far presente il fatto che la satira è in realtà parte importante del Carnevale un po’ ovunque.

I tratti culturali carnevaleschi e quelle di altre feste possono essere letti alla luce di teorie di derivazione marxiana come quella dei “dislivelli interni di cultura” di cui parla A.M. Cirese. E’ questa l’ impostazione teorica di “Carnevale si chiamava Vincenzo”.

Usando un approccio diverso, che non fa riferimento solo al concetto economico di classe ma anche a quello ceto, si può spiegarli attraverso modelli di radice weberiana che peartono dall’ assunto di una multidimensionale stratificazione della società.

Ma qui mi interessa inserire nel discorso un filosofo Jurgen Habermas il quale affronta il problema delle società pluralistiche in cui proliferano punti di vista diversi, diversi valori, che spesso tendono a degenerare in conflitti.

Ciò è tanto più vero in un paese come l’ Italia in cui oltre ad esserci delle forti divisioni sociali ed ideologiche ci sono anche molti gruppi etnici e differenze regionali da preservare.

Legare il nome di questo intellettuale al libro di Rossi e De Simone è un’ operazione azzardata ma proverò ugualmente a farla.

Habermas è fautore di un universalismo che però è differente a quello di quanti assimilano e livellano tutto in maniera irriguardosa.

Quest’ autore si fa portavoce di una teoria morale e giuridica ispirata ad un universalismo sensibile alle differenze. Propugana un eguale rispetto per la persona dell’ altro, nella sua specifica diversità.

Ma <<Il fatto che le persone acquistino individualità solo passando attraverso processi di socializzazione fa si che il rispetto.. debba riguardare l’individuo sia come singolo sia come membro comunitario>>5.

Nelle società pluralistiche il fardello delle differenze culturali viene portato avanti sul piano politico il quale nè favorisce la convivenza e la vitalità; o almeno il nostro autore vorrebbe che fosse così.

Habermas elogia lo stato-nazione per <<aver saputo sostituire i disgregati legami corporativi della società protomoderna con una solidaristica associazione civica. Ma questa conquista repubblicana viene messa a repentaglio quando si vuole ricondurrre.. la forza integrativa della nazione.. al dato di fatto -prepolitico- di un popolo naturalistico, dunque a qualcosa di indipendente dalla formazione.. della volontà.. degli stessi cittadini>>con le loro differenze.

Le inclusioni dell’altro non devono essere intese come assimilazione dell’altro nel senso dell’appiattimento di tutti i valori, significa piuttosto che i confini della comunità sono aperti e porosi, senza che dei soggetti, travolti dalla modernità e dalla sua omologazione culturale, siano costretti a rinunciare alle loro credenze e ai loro valori.

Idee di matrice universalistica sono germogliate in seno al pensiero illuministico e sono giunte fino alla tarda modernità. Il progetto che ne scaturisce è rivolto alla affermazione, sul piano morale e politico, della legge come legge universale umana e come diritto naturale. Tale corrente di pensiero vede la realtà culturale e sociale del mondo occidentale alfabetizzato come omogenea.

Questa intenzione di democrazia universale non tiene conto dello sviluppo economico e sociale diseguale e della presenza di popoli di tradizioni differenti, e perciò si traduce in una chiusura verso l’altro.

Invece Habermas è sostenitore di un universalismo sensibile alle particolarità multiculturali.

E si oppone ai Postmoderni e alle loro teorie caratterizzate dal relativismo e dal trionfo dei particolari punti di vista, teorie che possiamo rintracciare nelle opere di atteggiamento postmoderno.

Habermas ha portato avanti una polemica contro il relativismo, secondo cui ogni cultura è un sistema chiuso in se stesso e dunque incomunicabile con tutti gli altri.

Egli, al contrario, crede che attraverso una continua apertura al dialogo gli uomini possano giungere ad un accordo su norme e principi etici universalmente validi.

Esiste una razionalità comune a tutti gli uomini: una razionalità discorsiva, comunicante ed intersoggettiva. Contro il relativismo dei Postmoderni, Habermas sostiene che si fa sempre più sentire l’esigenza di una base comune in grado di consentire un dialogo tra le diverse culture.

La speranza utopica di Habermas è che la volontà comunicativa e discorsiva delle tante culture partorisca una morale universale che vada ad incidere in maniera pregnante sulla vita degli uomini. Prefigura una morale autonoma che prscinda da ogni autorità religiosa, tradizionale, e sociale; figlia di quell’ epoca postmetafisica che Weber aveva chiamato era del “disincantamento del mondo”.

Secondo me questi concetti di Habermas calzano con le idee dei due autori di cui sto trattando.

Essi non studiano i tratti culturali e le pittoresche feste per diffondere romanticamente una nostalgia per una comunità agreste del passato. Non vogliono solo, rivitalizzare aspetti di una cultura legata alla terra, e narrare i bei tempi andati.

In realtà credo che abbiano intenzione di mettere in evidenza come le feste e le credenze popolari, presenti ancora in una terra come quella campana, siano in sostanza simili a tratti culturali di civiltà lontane nel tempo e anche nello spazio.

E affermo questo in relazione a quanto scritto nella prima parte del mio lavoro che ha sottolineato varie escursioni da parte di Rossi e De Simone nella realtà greca e romana antica.

Tra l’altro la mia tesi di laurea in etnologia è tutta incentrata sulle simbologie e sui significati che emergono dal confronto tra feste di varie regioni d’ Italia.

E’ prendendo coraggio da queste analogie che si può azzardare la convinzione che, sia possibile il dialogo tra le culture e che, sotto l’ egida dello Stato, si possa arrivare all’approvazione di un’ etica comune nelle varie sfere della vita sociale, nel rispetto delle differenze.

Habermas crede, come i pensatori liberali,  che la legittimazione in una società democratica risulti solo da un dialogo pubblico, questo dialogo non si sottopone solo a prinicipi dell’imparzialità verso gli individui, ma si fonda sui criteri di un “discorso funzionale” . E il dialogo deve essere funzionale alla comunicazione tra culture diverse.

Interpretando in questo modo questo filosofo, importante anche per la sociologia, non si può continuare a tarattere come retaggi da ignorare, le tradizioni di intere popolazioni. Infatti esse fanno parte della memoria collettiva e per dirla con Jung dell’ “inconscio collettivo”.

Stando così le cose, e questo è il punto della questione, si deve fare luce sui discorsi portati avanti dalle varie culture per elaborarli e riportarli ad un livello di ragionevolezza.

E’ superficiale quindi l’ atteggiamento, che ha anche risvolti etici, di molti liberali, i quali leggono i rituali, soprattutto quelli pagani come semplici e sciocche superstizioni non degne di studio.

Riportare in auge in maniera critica, le radici di una cultura significa dare la possibilità alla persona che né fa parte di compiere scelte libere in un contesto di comunicazioni non distorte. E questo è un discoro che si sviluppa in parallelo si a per l’ io che per la società.

Negli stessi rituali campani sono presenti dei simboli di cui è importante riscoprirne il significato.

I due studiosi né parlano soprattutto a proposito del Carnevale durante il quale viene messa in discussione la benevolenza degli esseri provenienti dall’ oltre tomba. Attraverso la festa essi vengono esorcizzati ponendo in essere rituali di combattimento contro gli spiriti maligni. I travestimenti servono a nascondersi a queste forze negative e ad esorcizzarle mimetizzandosi con esse.

Al termine del Carnevale il fantoccio che lo rappresenta viene bruciato. E il fuoco ci dicono in questo libro, citando Jung, è <<in base alla stessa ambivalenza di tutti i segni popolari, elemento positivo e negativo nello stesso tempo.Positivo perchè simbolo di rigenerazione e purificazione; negativo perché elemento castrante ed espressione di un senso di colpa comune >>7 , ma anche aggiungo il fuoco sta ad incarnare quei pericoli di cui ho scritto in principio.

Il fuoco è segno ambivalente che implica la morte e nello stesso tempo la vita, la fertilità e ciò lo ritrovo anche nei miti antichi. <<E’ il caso dei culti in onore di Osiride, Tammuz, Attis-Adone, Mithra nei quali il fuoco si veneravatanto come forza benefica quanto come forza distruttrice.>>8.

In alcune rappresentazioni, carnevale viene anche castrato, prima di essere dato alle fiamme. Ciò ricorda <<la mitica figura di Saturno.. padre del padre degli dei.. vecchia figura patriarcale, castrato daisuoistessi figliin onore specificamente di Saturno erano indetti i saturnali che col nostro stesso Carnevale presentano affinità di periodo stagionale e di forme rituali>>9.

Queste sono solo alcune delle tantissime simbologie messe in risalto in questo libro nel quale sono vari i collegamenti a Jung. I principali approcci moderni della meta-ermeneutica, appaiono adatti ad un’analisi dei fondamenti della psicologia del profondo, e particolarmente delle concezioni junghiane.

E qui ritorniamo ad Harbemas che sostiene la necessità di una meta-ermeneutica e gli assegna il nome di “ermeneutica del profondo”, alludendo alla sua capacità di scendere nel torbido e nelle profondità di una società in cui nascono dei conflitti .

Il compito dell’ermeneutica del profondo è lo smascheramento delle ideologie e delle credenze culturali che mistificano i rapporti umani. Habermas costruisce una meta-ermeneutica prendendo spunto da una marxiana “critica dell’ideologia” . Suo intento è quello di permettere lo sviluppo di una società in cui si abbia finalmente una giusta comunicazione tra le persone.

E meta-ermeneutica non significa altro che studio di un “linguaggio culturale” con gli strumenti di un altro “linguaggio” culturale. E’ la costruzione di un ponte tra due culture, la possibilità e la volontà utopica di capirsi.

Bibliografia.

1. De Simone R., Rossi A., Carnevale si chiamava Vincenzo, 1977

2. Ibid.

3. Ibid.

4. Ibid.

5. J. Habermas, L’inclusione dell’altro, Studi di teoria politica, 1996

6. Ibid.

7. De Simone R., Rossi A., Carnevale si chiamava Vincenzo, 1977

8. Ibid.

9. Ibid.

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